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I pm di Milano e le ragioni per cambiare la giustizia

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Se esistesse un’Alta Corte di giustizia titolare del giudizio disciplinare sui magistrati, come quella prevista dalla riforma sulla separazione delle carriere, i due pm milanesi Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro potrebbero ancora ricoprire il loro ruolo? Sono stati condannati in primo grado e in appello per aver occultato le prove dell’innocenza dei vertici dell’Eni, per cui chiedevano la condanna. De Pasquale ha smesso di fare il procuratore aggiunto ma continua ad esercitare l’azione penale come pm. Spadaro è stato addirittura promosso alla procura europea. Un Csm afflitto da un inguaribile corporativismo non li ha interdetti. Un’Alta Corte indipendente avrebbe potuto fare altrettanto?

Non siamo davanti a un dettaglio, ma a un episodio che tocca il cuore stesso della giustizia: la fedeltà alle regole, anche quando l’esito dell’azione penale non coincide con la visione del pubblico ministero. Quella fedeltà a Milano è venuta meno, secondo quanto accertato da due sentenze di primo grado e d’appello. Con la separazione delle carriere, dicono in questi giorni gli avversari della riforma, il pm rischia di trasformarsi in un poliziotto irresponsabile. Ma quel pericolo non appartiene al futuro. È già qui. È dentro il sistema. Il caso di Milano lo dimostra a pieno.

Da anni una parte non irrilevante della magistratura requirente non si limita a perseguire i reati, ma si è attribuita tre funzioni indebite: quella di custode della legalità, quella di arbitro della moralità pubblica e quella di promotore di una presunta giustizia sociale perseguita attraverso l’azione penale. È proprio quest’ultimo tratto a rivelarne l’obiettivo ideologico.
Per realizzarlo, non si è esitato a stressare le procedure, a piegare le norme, ad abusare di leggi speciali.

Basti pensare al codice antimafia, concepito per colpire i patrimoni illeciti, utilizzato in questi giorni dalla stessa procura di Milano per chiedere l’amministrazione giudiziaria della Tod’s. Non per legami con la criminalità organizzata, ma per presunte violazioni sulle norme del caporalato nella filiera produttiva. È l’esempio lampante di come uno strumento emergenziale possa attivare un controllo giudiziario dell’economia. Certo, quella dei pm di Milano è solo una richiesta, già respinta da un tribunale di prevenzione e su cui la Cassazione dirà l’ultima parola. Una rassicurazione che nulla toglie al modo di interpretare l’azione penale da parte di alcuni magistrati.
Ma nel processo Eni si è andati oltre. L’occultamento delle prove di innocenza degli imputati non è stato un inciampo, un errore di percorso, e neanche solo il frutto di un pregiudizio cognitivo. Secondo i giudici di primo grado e d’appello, è stato un atto doloso, deliberato, finalizzato a ottenere una condanna nei confronti dei vertici Eni pur in assenza dei presupposti di colpevolezza. Così un processo di altissimo rilievo, che avrebbe dovuto rappresentare un banco di prova di rigore e trasparenza, si è trasformato in un laboratorio di manipolazione, dominato da una logica di risultato.

Anche in questo caso l’inquinamento è stato sventato da una sentenza del tribunale, che ha assolto gli imputati indebitamente accusati, e ha denunciato i magistrati accusatori. Ma quante altre volte la logica di risultato di pm spregiudicati si è imposta in processi meno noti, lontani dai riflettori dei media, di cui non si è mai avuta notizia? Quante volte la volontà di arrivare a un verdetto esemplare ha piegato le regole e ha sovvertito la giustizia, non avendo davanti a sé il bilanciamento di un ragionevole dubbio del giudicante?

Perché questo è il primo antidoto ai veleni del sistema e insieme l’obiettivo della riforma, ancor più dello stesso giudizio disciplinare: rafforzare chi giudica nel merito. Che vuol dire restituire centralità a quel filtro terzo e imparziale che dovrebbe essere indifferente all’esito del processo. Essere terzi significa liberarsi del mito della “logica di risultato”, riconoscere un’assoluzione come un successo, non come una sconfitta. Significa cioè considerare un caso insoluto come la prova che lo Stato non ha il diritto di punire senza prove certe. È questo il cuore della terzietà: non servire la punizione, ma proteggere l’innocente. Non a caso il codice recita all’articolo uno: “Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”.

È una formula semplice e solenne che racchiude la genesi e la ragione più profonda del diritto penale: limitare la forza dello Stato, non farle sponda. Un giudice che sia davvero terzo deve farsi garante di questa estrema difesa della libertà del cittadino contro l’azione autoritativa dei pubblici poteri.
Per queste ragioni la riforma della giustizia ha una portata epocale e, come tale, è destinata a tradire una parte delle aspettative riposte in essa. Avrà bisogno di rodaggio, di anni di implementazione, di correzioni. Ma la direzione è chiara: separare l’esercizio della giurisdizione dall’obiettivo ansiogeno del risultato. Perciò va difesa, promossa e votata con tutte le energie nel referendum che ci attende.

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