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Se Trump gioca a spaccare l’Europa

Il tycoon si appresta a vedere Putin a Budapest. Forse l’unità dell’Ue non è tra le sue priorità

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Il grande pacificatore, Donald Trump, questa volta incontrerà Putin in Europa, a Budapest, sotto gli auspici del premier Viktor Orbán. Difficile fare previsioni, sapere in anticipo come andrà a finire, se stavolta scoppierà la pace, o almeno la fine delle ostilità, o se invece anche nella capitale magiara l’accordo sarà mancato.

Quel che però si sa già è abbastanza per dire una parola non sul futuro della pace, ma sul futuro
dell’Europa. Perché se Donald Trump incontra Vladimir Putin nella capitale ungherese, se offre a Orbán – non certo a von der Leyen, o agli altri leader europei – un ruolo da protagonista, vuol dire che il presidente americano non ha tra le sue priorità quella di dare garanzie all’Unione europea sul suo futuro. Alla beffarda domanda di Kissinger – chi devo chiamare se voglio parlare con l’Europa – la risposta di Trump suona: a nessuno, e se proprio voglio alzare il telefono chiamo, tutt’al più, l’amico Orbán.

Ricordate? Trump aveva detto che, se volevano davvero far qualcosa per l’Ucraina, gli europei dovevano smetterla, finalmente, di acquistare il petrolio russo (stesse brusche parole, peraltro, ha riservato anche all’India, principale acquirente del petrolio e del gas russi). Beh, Orbán non ha mai smesso di fare acquisti. Non solo: ha sempre manifestato contrarietà alla linea delle sanzioni contro Mosca, e si è fermamente opposto all’ingresso dell’Ucraina nell’Unione europea. Da questo campione non certo di europeismo, ma di una democrazia illiberale sostenuta dal vento conservatore del nazionalismo cristiano, si recherà Trump fra due settimane, per fare la pace con Putin.

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Su scenari, ricostruzioni e analisi ci si può lambiccare a lungo, e anche le altalenanti dichiarazioni del presidente americano, l’«odi et amo» verso l’un contendente o verso l’altro, e i Tomahawk che glieli diamo o invece no, non glieli diamo, e nuove sanzioni che le mettiamo anzi no, non le mettiamo ancora, e gli ultimatum che diventano penultimatum che sbiadiscono in terzultimatum, non permettono di formulare pronostici, anche se è chiaro cosa pensa Trump, fin dal giorno in cui ebbe a dire (e poi a ripetere più volte) che si sarebbe fatta la pace in ventiquattr’ore, non appena fosse divenuto presidente. E cioè: diamo qualcosa aPutin, facciamo concessioni, non impicchiamoci a questioni di principio, vediamo piuttosto di concludere qualche affare e vedrete che la pace sboccerà.

Se finora un simile atteggiamento non ha pagato, non vuol dire che prima o poi non paghi: si tratta di vedere il prezzo, e se le attuali condizioni sul campo non inducano anche Putin a più miti consigli. Ma una cosa è chiara: Trump se lo può permettere, perché non porta il peso delle preoccupazioni politiche e militari che assillano invece le capitali europee. Di più: perché non ha una sola ragione per augurarsi che l’Europa proceda sulla strada dell’integrazione. Se così non fosse, non andrebbe in pompa magna da quell’Orbán che è la bestia nera di Bruxelles, primo e principale fattore di disunione che ci sia sul continente.

Non è solo una questione di affinità ideologica fra il mondo MAGA e il premier ungherese. È che l’America di Trump non ha nulla da guadagnare da un’Europa forte, e tutto invece da un’Europa divisa, subalterna a Washington sul piano politico e dipendente su fronti strategici, come le materie prime o la tecnologia. Per cui va benissimo essere alleati, e va ancora meglio se passa – com’è passato – un sostanzioso riequilibrio nel sostenere i costi dell’alleanza atlantica. Ma la dottrina trumpiana della sicurezza finisce qui, e per il resto non prevede spirito di collaborazione e particolari felicitazioni per la politica commerciale di Bruxelles, o per l’approvazione dell’IA act, la legge europea sull’intelligenza artificiale che rompe le scatole ai colossi statunitensi.

Come Kissinger: Trump semplicemente non «vede» Bruxelles, e conduce una politica «iuxta propria principia» che si fa molta fatica a inscrivere nell’orizzonte del multilateralismo. Il che mette l’Europa di fronte a un rischio non piccolo, di trovarsi, il giorno dopo il vertice di Budapest, di fronte a fatti compiuti, con scarsissimo margine per far valere i propri interessi e il proprio ruolo. Nella lettera d’invito del presidente Costa, in vista del prossimo Consiglio europeo del 23 ottobre, ricorre insistente la parola rafforzamento: rafforzamento dell’Agenzia europea della difesa, rafforzamento del ruolo internazionale dell’euro, rafforzamento della competitività. Anche in questo caso, è difficile scommettere sui passi che al summit saranno concretamente compiuti, ma intanto, se queste settimane preludono davvero a una pace anche sul fronte ucraino, come ci si arrivi e chi ne sia protagonista è questione niente affatto secondaria, e tocca, o toccherebbe, farsi trovare preparati.

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