Dalla memoria negata alla militanza cieca: se l’ignoranza trasforma la passione in ideologia, la scuola ha già fallito
Con i negoziati in Egitto che tengono il mondo intero legato a un filo di speranza, in Israele si ricordano oggi le mille duecento vittime del pogrom di Hamas, e si chiede la liberazione degli ostaggi ancora nelle mani dei terroristi. Intanto nelle piazze italiane abbiamo assistito a una straordinaria mobilitazione collettiva a sostegno della Striscia di Gaza, per la fine della guerra e del massacro di civili palestinesi.
Una mobilitazione che ha visto una significativa partecipazione di studenti, spinti – di questo siamo certi – da un desiderio autentico di giustizia, da una volontà sincera di pace. Proprio per questo la loro passione merita attenzione, tanto più che troppo spesso abbiamo stigmatizzato la loro indifferenza e apatia, la loro narcosi da social. E tuttavia quello che abbiamo visto, da Milano a Bologna, da Roma a Napoli, richiede una riflessione ulteriore, perché è un fenomeno che non può più essere liquidato come marginale.
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Parlo dei ragazzi e delle ragazze che hanno sfilato gridando “Palestina libera dal fiume al mare”, scandendo contro gli israeliani slogan da stadio o evocando l’Intifada globale. E, quel che è peggio, dietro cortei aperti da striscioni che inneggiavano al 7 ottobre come inizio della “resistenza palestinese” e non come quell’orrenda mattanza che è stata. Questa stessa logica ha portato oggi molte scuole e molte facoltà italiane all’occupazione, non in nome della memoria delle vittime, ma a favore dei carnefici.
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È un rovesciamento che replica esattamente la stessa distorsione vista nei cortei. Di fronte a tutto ciò dovremmo dunque chiederci onestamente, proprio oggi, come siamo arrivati a educare una generazione che poco o nulla sa di ciò per cui manifesta, o meglio contro cui protesta, una generazione nutrita di una tale “compassione selettiva”. Per rispondere, occorrerebbe partire da una domanda più ampia: quando è che l’Occidente ha smesso di raccontare sé stesso e ha rinunciato a trasmettere la propria memoria come patrimonio condiviso, sostituendola con le emozioni, gli slogan e le appartenenze ideologiche?
ùNel caso di Israele, questa “smemoratezza” ha assunto proporzioni emblematiche. Molti di questi ragazzi che oggi denunciano “l’occupazione sionista” sanno a malapena quando, come e perché è nato lo Stato d’Israele. Quasi certamente ignorano che cosa sia il sionismo, parola divenuta a tutti gli effetti un insulto, o che cosa successe quando Israele accettò la partizione in due popoli e due stati votata dalle Nazioni Unite, mentre i Paesi arabi la rifiutarono. E quante volte nella storia successiva quella stessa proposta l’hanno rifiutata i palestinesi.
Soprattutto ignorano – almeno si spera – che “dal fiume al mare” significa la cancellazione di Israele tra il Giordano e il Mediterraneo. E se non sanno tutto questo è perché nessuno glielo ha mai spiegato. Il risultato è che il linguaggio politico dei giovani, quando esiste, è fatto di parole-feticcio – “colonialismo”, “oppressione”, “resistenza” – usate come etichette assolute, stereotipi senza contesto né genealogia. La storia del Medio Oriente, nella più ottimistica delle ipotesi, è ridotta a un bignami manicheo, che attinge pigramente e inconsapevolmente a un immaginario in voga negli anni Settanta: il colonizzatore bianco contro l’oppresso indigeno.
E così Israele diventa il “nemico morale” perfetto: occidentale, tecnologico, orientalista. In altre parole, troppo simile a noi per non diventare il bersaglio simbolico delle nostre colpe. Ma questa semplificazione non nasce dal nulla. È l’effetto di un lungo abbandono educativo, che ha trasformato la memoria del Novecento in un esercizio retorico. Dopo Auschwitz, abbiamo giurato “mai più”, ma abbiamo smesso di spiegarne le conseguenze. La Shoah è diventata il rito annuale, stanco, ripetitivo della “giornata della memoria”, sbrigata per lo più con la proiezione dei soliti film sui lager nazisti.
Così il sionismo, da sogno di sopravvivenza, è stato ridotto a sinonimo di potere. Quel sionismo che nessuno ha raccontato meglio di Amos Oz, nel suo romanzo Una storia di amore e di tenebra, come sogno utopico di ebrei europei scampati alla persecuzione e di giovani pionieri di un nuovo mondo, egualitario, da rifondare, ma allo stesso tempo come tragedia per un’altra popolazione che ne subì le conseguenze. Tenere insieme queste due verità – il diritto d’Israele a esistere e il diritto dei palestinesi a vivere liberi – è ciò che distingue la complessità dalla propaganda.
Ma oggi persino i “negoziati di Oslo”, che dovrebbero essere un capitolo fondamentale nella formazione civile di chiunque voglia parlare di pace, sono poco più di una formula vuota. Quanti di questi ragazzi e ragazze che hanno sfilato nei cortei, se interrogati in proposito, saprebbero dire chi fu Yitzhak Rabin? Eppure postano le loro storie su Instagram per la Flotilla scambiando l’impegno con un reality show. Non si tratta di demonizzare i giovani che scendono in piazza o usano i social come i dazebao di un tempo, ma di chiedersi perché non abbiano gli strumenti per distinguere un atto di terrorismo da una ribellione, la critica legittima a un governo che non rispetta il diritto internazionale dall’odio verso un intero popolo.
Di chi è la responsabilità? Le forze politiche e sindacali che si richiamano alla tradizione antifascista, quando organizzano o cavalcano consapevolmente manifestazioni costruite su questo rovesciamento della narrazione, sostituendo l’antisemitismo all’antifascismo, sono consapevoli di un tale capovolgimento morale della storia? E la scuola che ruolo svolge di fronte a questa deriva? Certo sarebbe ingiusto incolparla di ogni male, però varrebbe la pena ricordare che il suo compito non è generare militanza e indottrinamento, ma senso critico e complessità. Sempre. Hanno parlato i docenti con i loro studenti? Se sì, con quali risultati?
Perché se la scuola non riesce in questo obiettivo, in qualcosa abbiamo fallito, perché il dogmatismo non è migliore dell’indifferenza. Ciò che distingue un buon maestro da un cattivo maestro, infatti, è che il primo insegna come pensare, il secondo cosa pensare. Protestare contro la guerra e per la pace è un dovere morale, ma il rischio è che questo entusiasmo – spesso autentico, genuino – diventi il carburante inconsapevole dell’odio. Quando in alcune città, da Manchester a Sydney, si uccide nel nome della “giustizia per Gaza”, o si vandalizzano sinagoghe e negozi ebrei, quell’indignazione si è già trasformata in qualcosa di funesto e irreparabile. La causa palestinese, che è sacrosanta, non può diventare pretesto per l’intolleranza antisionista o antisemita.
Perché un sentimento giusto, non accompagnato dalla conoscenza, può diventare ingiusto; e l’entusiasmo, non educato al discernimento, può trasformarsi in violenza. E se la politica ha abdicato totalmente alla sua missione, la scuola, più che mai, dovrebbe essere il luogo in cui la passione giovanile trova misura, radici e guida. L’alternativa è abbandonare gli studenti al conformismo e alla cecità. Lo sforzo che dovremmo fare tutti, allora, è di ricostruire per le nuove generazioni una pedagogia della memoria.
Oggi, che ricordiamo la strage degli innocenti compiuta due anni fa, a sua volta causa di un’ulteriore, inaccettabile strage di innocenti che prosegue tuttora, non possono essere un tweet, uno slogan o uno striscione indegno a restituire la complessità dei fatti. Resta la responsabilità – individuale e collettiva – di tornare a insegnare che la conoscenza è un esercizio di libertà. E che gridare “dal fiume al mare” è il segno allarmante di una civiltà che ha smesso di capire le parole che pronuncia.