Parla il consigliere della Corte d’appello di Roma: «La riforma della giustizia? Va vista nell’ottica dell’imputato, non del magistrato»
Oltre la “Linea Maginot” dove è arroccata la magistratura, contro l’avanzata nemica di chi vuole la separazione delle carriere, ci sono toghe che non intravedono nella riforma un pericolo per la propria autonomia. Pensano piuttosto che il rischio di contaminazione tra funzioni (giudicante e requirente) possa esistere, e che dunque serva mettere un punto per la garanzia di tutte le parti del processo.
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Ci sono magistrati le cui parole fuori dal coro, sono come pietre, soprattutto se pronunciate di fronte ad una platea di centinaia di penalisti come quelli riuniti a Catania nei giorni scorsi. L’Unione delle Camere penali ha parlato a lungo del referendum sulla separazione delle carriere che la vedrà impegnata con tutte le sue forze perché vinca il sì.
E Valerio de Gioia, consigliere della prima sezione penale della Corte di appello di Roma, con il suo intervento ha raccolto più applausi di quanti in 30 anni ne abbiano raccolti i vari presidenti dell’Anm messi insieme. «Io non sono un tifoso della separazione delle carriere – ha esordito de Gioia – ma il mio ragionamento è una risposta a chi non vuole neanche ipotizzare questa riforma. Io non vedo elementi di mortificazione del magistrato, anzi vedo un vantaggio per una credibilità che il giudice come il pm deve avere. Io non leggo la riforma come magistrato, ma la guardo come – spero mai – futuro imputato».
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L’applauso è stato scrosciante e lunghissimo. Non solo de Gioia è stato testimone del fatto che quell’autonomia e quell’indipendenza che la sua categoria tanto rivendica esiste, ma addirittura ha impresso nelle sue parole un principio che incarna perfettamente il modello di magistrato che guarda ai valori e alle norme del giusto processo e della parità tra le parti: «Il giudice non deve solo essere indipendente dagli altri poteri – ha fatto notare – ma deve essere indipendente anche dal suo potere».
Nel nostro Paese, prosegue de Gioia, «il rischio è che, più che ad essere avvinto il pubblico ministero dalla cultura del giudicante (con tutte le garanzie che la corredano), possa essere il giudice ad essere contaminato da quella della procura, da quel “pregiudizio” che un soggetto terzo e imparziale (questo dice la Costituzione) non dovrebbe mai avere (come confermato dai numeri delle riforme dei provvedimenti cautelari e di condanna dei primi gradi di giudizio)».
E sui rischi paventati dalle toghe di asservimento dei pm al Governo? «Non vi è traccia nel disegno di legge di riforma costituzionale che, tra l’altro – incalza – prevede l’accesso alla magistratura requirente per concorso, non certo per nomina dell’Esecutivo, e le attuali modalità per la progressione in carriera». L’unico faro a cui guardare con fiducia è l’articolo 111 della Costituzione. Questa norma, come novellata dalla legge costituzionale 2 del 1999, stabilisce che la prova deve formarsi in dibattimento, nel contraddittorio delle parti, «davanti a un giudice terzo e imparziale».
Ebbene, la separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri non fa altro che dare completa attuazione ad un principio costituzionale che vede il processo penale fondato su un sistema accusatorio e di amministrazione della giustizia ispirato alle regole del giusto processo. Niente di più».
Chi parla di una riforma “punitiva” dei magistrati non considera che lo stesso Parlamento europeo, in una delibera del 1997 relativa al rispetto dei diritti umani nell’Unione europea, ha affermato la necessità di «garantire l’imparzialità dei giudici distinguendo tra la carriera dei magistrati che svolgono attività di indagine (examining magistrates) e quella del giudice al fine di assicurare un processo giusto (fair trial)».
Il Consiglio d’Europa, poi, ha espressamente invitato gli Stati membri ad agire «affinché lo status giuridico, la competenza e ruolo procedurale dei pubblici ministeri siano stabiliti dalla legge in modo tale che non vi possano essere dubbi fondati sul l’indipendenza e imparzialità dei giudici», evidenziando lo stretto rapporto tra il ruolo del pubblico ministero nell’ordinamento penale e l’indipendenza e l’imparzialità dei giudici.
Infine il richiamo di de Gioia alle parole e alle idee di Giovanni Falcone, dell’ottobre 1991, mentre seguiva, «neppure tanto convinto, le lezioni del primo anno della facoltà di giurisprudenza». Il sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, intervistato dal quotidiano “La Repubblica”, diceva allora che «un sistema accusatorio parte dal presupposto di un pm che raccoglie e coordina gli elementi della prova da raggiungersi nel corso del dibattimento dove egli rappresenta una parte in causa. Gli occorrono, quindi, esperienze, competenze, capacità, preparazione anche tecnica per perseguire l’obiettivo.
E nel dibattimento non deve avere nessun tipo di parentela con il giudice e non essere, come invece oggi è, una specie di “paragiudice”. Il giudice, in questo quadro, si staglia come figura neutrale, non coinvolta, al di sopra delle parti. Contraddice tutto ciò il fatto che, avendo formazione e carriere unificate, con destinazioni e ruoli intercambiabili, giudici e pubblici ministeri siano, in realtà indistinguibili gli uni dagli altri». Chi tiene a mente queste parole, conclude il magistrato capitolino, «non può essere bollato come nemico dell’indipendenza del magistrato, o un nostalgico della discrezionalità dell’azione penale, desideroso di porre il pm sotto il controllo del l’esecutivo».