Il piano che Donald Trump ha sottoposto al premier israeliano Benjamin Netanyahu, secondo quanto riportato dettagliatamente dalla stampa israeliana, comprenderebbe 21 punti e sarebbe stato definito attraverso le consultazioni tra Trump stesso e i leader dei Paesi arabi. Il suddetto documento, che secondo il tycoon avrebbe ricevuto luce verde da Hamas (il movimento palestinese finora ha ufficialmente smentito), dovrebbe essere soggetto a revisione per aderire alle richieste israeliane.
Secondo lo schema immaginato, previo consenso di Israele e Hamas, il conflitto dovrebbe concludersi immediatamente dopo la firma dell’intesa, con la sospensione di tutte le operazioni dell’Idf e il ritiro graduale delle truppe israeliane dalla Striscia. Si tratta di una richiesta fondamentale delle forze palestinesi, contrarie a qualunque accordo temporaneo che non prevedesse il ritiro completo da parte dell’esercito israeliano.
E’ quindi previsto che, entro 72 ore dall’accettazione dell’accordo, tutti gli ostaggi in mano ad Hamas – vivi e morti – vengano rilasciati rilasciati. Una volta liberati gli ostaggi, Israele libererà a sua volta centinaia di detenuti palestinesi come parte dello scambio di prigionieri. Un’amnistia sarà quindi concessa a tutti i membri di Hamas che accettano di sospendere le ostilità, mentre a chiunque desidererà lasciare Gaza sarà concesso un salvacondotto verso dei Paesi ospiti.
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Il blocco degli aiuti umanitari – al centro delle controversie degli ultimi mesi, a causa della carestia scatenatasi nella Striscia – dovrebbe essere rimosso. La gestione e la distribuzione degli aiuti umanitari sarà trasferita dall’attuale Gaza Humanitarian Foundation – molto controversa a causa dei suoi stretti legami con le forze armate israeliane – alle Nazioni Unite e alla Mezzaluna rossa (le sezione araba della Croce rossa internazionale), insieme ad altre organizzazioni umanitarie non affiliate né a Israele né ad Hamas. Anche in questo caso si tratterebbe di una concessioni pesanti da parte di Israele, che non solo ha promesso la cancellazione totale di Hamas ma ha anche vietato le attività delle Nazioni Unite giudicale una forma di sostegno al terrorismo.
Per quanto riguarda il futuro post-bellico della Striscia, il governo di Gaza dovrebbe essere trasferito a un’amministrazione transitoria temporanea guidata da tecnici palestinesi indipendenti, che sarà responsabile della gestione quotidiana della Striscia. Tale comitato dovrebbe essere supervisionato da un ente internazionale ad hoc creato dagli Stati Uniti insieme a una serie di Paesi arabi ed europei. Nessuno gazawi sarà costretto ad abbandonare la Striscia e a quelli che lo hanno già fatto sarà garantito il diritto di tornarvi.
Secondo le indiscrezioni l’ex premier britannico Tony Blair sarebbe già stato selezionato per guidare l’ente amministrativo di Gaza, il quale tuttavia dovrà affrontare le resistenze dei palestinesi a farsi amministrare da un governo straniero.
Israele si impegnerebbe a non compiere attacchi futuri contro il Qatar, di cui gli Usa e la comunità internazionale dovrebbe riconoscere ufficialmente il ruolo centrale nel processo di mediazione. Questo punto dovrebbe essere una sorta di “rimborso” per il bombardamento israeliano di Doha, avvenuto lo scorso 9 settembre e per il quale Netanyahu ieri si è scusato – in collegamento telefonico – con l’emiro del Qatar, durante il suo incontro con Trump.
Nello schema immaginato poi, Hamas dovrà rinunciare a ogni partecipazione in qualunque forma al governo post-bellico della Striscia. Il nuovo governo si impegnerà a distruggere tutte le infrastrutture militari presenti, tunnel compresi, e a perseguire una coesistenza pacifica con le nazioni vicine. Gli Stati Uniti lavoreranno con i Paesi arabi e altre nazioni per creare una forza internazionale di stabilizzazione temporanea, che sarà immediatamente dispiegata a Gaza per sovrintendere la sicurezza nella Striscia.
A tale entità sarà delegato il compito di addestrare un corpo di polizia palestinese, che subentrerà in un secondo tempo come forza di sicurezza sul lungo periodo. I Paesi arabi garantiranno il rispetto degli obblighi da parte di Hamas e che Gaza non diventi nuovamente una minaccia alla sicurezza di Israele. In cambio, lo Stato ebraico non occuperà né annetterà Gaza e l’Idf si ritirerà gradualmente dal territorio attualmente occupato, via via che le forze di sicurezza internazionali ne prenderanno il controllo.
Questo probabilmente è destinato a essere il nodo più grande. L’intero piano infatti si prefigura come molto vago nelle fasi attuative, fatta salvo la parte concernente la liberazione degli ostaggi. Data la scarsa credibilità dell’attuale amministrazione americana e la fiducia quasi nulla tra le parti, è difficile immaginare uno scenario in cui – per esempio – Hamas accetti la demolizione pacifica del proprio apparato militare (come i tunnel), esponendosi in un prossimo futuro a un nuovo attacco israeliano.
Il discorso, peraltro, potrebbe essere più ampio del singolo gruppo palestinese: anche ponendo che questi accetti, una popolazione decimata e traumatizzata come quella gazawi potrebbe davvero accettare di fidarsi di Netanyahu o dell’esercito israeliano e deporre le armi in cambio di vaghe promesse su un futuro Stato palestinese? Va notato come le riforme che i palestinesi dovrebbero accettare in cambio dell’intesa restino indefinite, esponendo l’intero processo al rischio di una conveniente “palude” procedurale. Così come va notato come nessuna riforma venga richiesta a Israele, né in merito ai centinaia di migliaia di coloni che vivono nei territori occupati né riguardo alle proprie politiche securitarie.