Trump annuncia la decisione, presa in segreto già un mese fa. Gli alleati dell’Ucraina preoccupati dal vuoto lasciato dagli Stati Uniti
Uno stop che ha il sapore amaro di un abbandono, quello deciso dall’amministrazione Trump con la sospensione delle spedizioni di armi dirette a sostegno dell’Ucraina. Lo stop non riguarderà tutte le armi inviate dagli Stati Uniti a Kiev, almeno per il momento, ma alcuni dei sistemi più avanzati come le batterie di difesa aerea Patriot, missili aria-terra Hellfire, missili GMLRS utilizzati dai lanciarazzi Himars, sistemi portatili di difesa aerea Stinger e proiettili d’artiglieria da 155 mm.
Le armi che dovevano essere inviate facevano parte dei 66 miliardi di dollari di aiuti militari e armamenti approvati dal Congresso sotto l’amministrazione Biden dal febbraio 2022. Anche se nessuna nuova spesa è stata autorizzata sotto Trump, i precedenti pacchetti di aiuti militari sono per lo più proseguiti, fatta eccezione per una breve pausa a marzo. Alla base della decisione – che sarebbe stata presa segretamente il mese scorso dal sottosegretario alla Difesa Elbridge Colby – ci sarebbe la preoccupazione che le scorte degli Stati Uniti in fatto di armamenti avanzati e munizioni si stiano esaurendo troppo rapidamente.
La sospensione motivata dalla strategia…
Secondo la Casa Bianca, la sospensione sarebbe stata decisa «per mettere al primo posto gli interessi dell’America, a seguito di una revisione del Dipartimento della Difesa». Pronta è arrivata la presa di posizione ucraina. Kiev ha dichiarato che interrompere le forniture di armi non farebbe altro che incoraggiare l’aggressione russa. Il ministero degli Esteri ucraino ha riferito di aver convocato per questo l’incaricato dell’ambasciata Usa, John Ginkel, per un incontro con la viceministra degli Esteri, Mariana Betsa, per discutere dell’assistenza militare statunitense e della continua campagna di attacchi aerei russi.
«Qualsiasi ritardo o esitazione nel sostenere le capacità difensive dell’Ucraina non farà altro che incoraggiare l’aggressore a continuare la guerra e il terrore, anziché cercare la pace», ha dichiarato il ministero. «Attualmente dipendiamo fortemente dalle forniture di armi statunitensi, anche se l’Europa sta facendo tutto il possibile, ma faremo fatica senza le munizioni statunitensi», ha ammesso la fonte militare, mentre Mosca intensifica i suoi attacchi contro l’Ucraina. Non a caso, Mosca esulta: «Con meno armi a Kiev la pace è più vicina», ha dichiarato il portavoce del Cremlino, Dmitrij Peskov.
Eppure l’annuncio in sordina dello stop delle armi a Kiev sembra disegnato apposta per evitare a Trump l’annosa accusa di simpatie filo-russe. Ammettendo candidamente di non poter sostenere Kiev per ragioni di “esaurimento scorte”, l’amministrazione Trump è riuscita così nel doppio intento di avviare quel processo di sganciamento dall’impopolare conflitto ucraino che era stato una promessa storica del tycoon e al contempo apparire come un serio realista.
Le preoccupazioni per la tenuta dell’impero americano, in particolare per la sua capacità di difendere contemporaneamente più fronti (Ucraina, Israele, Taiwan), non sono frutto delle paranoie isolazioniste di Trump, bensì un sentimento condiviso da tempo dagli apparati militari e di intelligence americani, di cui lo stesso Colby (figlio di un ex direttore della Cia, nonché uno dei principali pensatori della politica estera repubblicana dell’ultimo decennio) è uno dei volti più importanti.
…ma anche dai calcoli politici
Ma la scelta di Washington appare non solo frutto di una volontà strategica, ma anche di una decisione squisitamente politica. Alla fine del summit dei paesi membri della Nato della scorsa settimana, lo stesso Trump aveva infatti aperto all’invio di più Patriot all’Ucraina, vitali per assicurare la protezione aerea delle città ucraine bombardate dalle forze aeree di Mosca. In particolare, a seguito di un incontro con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, il tycoon aveva riconosciuto che l’Ucraina «vuole avere i sistemi antimissile, quelli che chiamano Patriot, e vedremo se possiamo renderne disponibili alcuni».
Già allora però il tycoon aveva messo le mani avanti: quei sistemi d’arma «sono molto difficili da ottenere. Ne abbiamo bisogno. Li stavamo fornendo a Israele», suggerendo dunque che il sostegno a Israele nella sua guerra con l’Iran – una priorità per l’amministrazione repubblicana – abbia ostacolato la disponibilità a sostenere Kiev. Si ripropone così il tema della sempre maggiore difficoltà americana ad affrontare una competizione geopolitica multi-fronte e, con esso, della scelta degli alleati a cui dare la priorità. Israele, per interessi storici trasversali rispetto ai partiti e simpatie politiche contingenti alla galassia dell’internazionale conservatrice mondiale, appare agli occhi degli Stati Uniti una “voce di spesa” di gran lunga più preminente rispetto all’Ucraina.
Se non altro, per una questione di esclusione: in Medio Oriente nessun altro alleato americano garantisce lo stesso livello di affidabilità politica e efficacia militare contro i nemici dell’America di Israele, senza il quale Washington perderebbe nei fatti la presa sulla regione. All’opposto, mentre Kiev rimane importante nello scacchiere internazionale, anche se l’Ucraina dovesse uscire sconfitta dalla guerra gli Usa potrebbero fare affidamento su altri alleati regionali capaci di fare da argine alla minaccia russa, in primis la Polonia. Forse aveva ragione Kissinger quando diceva: «Gli Stati non hanno né amici permanenti né nemici permanenti: hanno solo interessi», eppure in questo triste gioco del cerino sembra che sarà Zelensky alla fine ad estrarre la pagliuzza corta.