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Se l’università si arrende alla cultura del “si dice”

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Qual è la missione dell’Università? O addirittura: qual è la missione del dotto? E, prima ancora, chi è il dotto? Rispondendo a queste domande in una prospettiva storica, si scanserebbe la principale difficoltà: quella di definire il ruolo dell’intellettuale in relazione al presente, all’incrocio fra i saperi e i poteri che plasmano oggi la sfera pubblica. Quando il filosofo tedesco Johann Gottlieb Fichte per primo tentò di dare una risposta a questa domanda – a Jena, nel 1794 – l’attualità era rappresentata dalla Rivoluzione francese, i cui effetti si sarebbero propagati negli anni a venire in tutta Europa, e Fichte teneva le sue lezioni avendo ben chiaro da dove soffiasse il vento (da Parigi), e quali potenti sollecitazioni sarebbero arrivate fino a lui, fino a infiammare il suo insegnamento e le menti dei suoi studenti.

Oggi non c’è una rivoluzione politica alle nostre spalle, e nemmeno, per quel che è dato prevedere, nell’immediato futuro, ma che il vecchio mondo scricchioli e che il parto di un nuovo mondo si annunci è sotto gli occhi di tutti. Se c’è dunque una missione – del dotto, dell’intellettuale, dei saperi e delle università – è in relazione alle necessità e ai bisogni del tempo presente, in risposta a quegli scricchiolii e a quel doloroso travaglio che andrebbe definita.

Il fatto è che, però, l’università di missioni, oggi, non ne ha solo una, bensì tre. Così, almeno, si legge nelle leggi e nei regolamenti che ne ordinano attività e funzioni. Accanto alla didattica e alla ricerca, sono spuntati da qualche anno i compiti di «terza missione», che nel linguaggio parlato dalla burocrazia accademica e ministeriale consistono, grosso modo, in tutto ciò che l’Università fa, insieme con gli «attori del territorio», per favorirne «la crescita» sotto il profilo sociale, economico, culturale.

Abbastanza anodina, come formulazione, ma tant’è. L’università ha sempre avuto, in realtà, una vocazione del genere – una missione, appunto -, anche se solo oggi è divenuta una faccenda da incentivare, promuovere, valorizzare con politiche apposite (e finanziamenti appositi). Ottima cosa. Tuttavia, per una strana legge di proporzionalità inversa, succede che quanto più aumenta l’impegno per la promozione e la valorizzazione, tanto più diminuisce la consapevolezza del significato di ciò che viene promosso e valorizzato.

Quanto più si viene spinti a fare, tanto meno ci si interroga sul senso di ciò che si fa. Su quale debba essere il rapporto fra teoria e prassi, fra scienza e società, fra saperi specialistici e cultura generale, fra dibattito pubblico e competenze scientifiche, fra ricerca e divulgazione, fra tradizioni di studio e esigenze presenti: su tutto questo, nessuno sa dare – e forse nemmeno tenta di dare – una risposta. Anzi: nessuno si pone davvero la questione, salvo rifugiarsi nell’idea che, in ogni caso, bisogna favorire la «crescita». E più non dimandare.

E invece domandare bisogna. Un «rapporto sul sapere» che fosse commissionato oggi – come fu commissionato a Lyotard alla fine degli anni Settanta, e ne venne fuori il saggio sulla condizione postmoderna e la fine dei grandi racconti della modernità – scoprirebbe, io credo, tre cose: per cominciare, che i grandi racconti sono tornati (che altro sono i racconti sull’immigrazione, la ridefinizione degli spazi geopolitici globali e il ruolo dell’Occidente, oppure i sempre più ingombranti temi identitari, per fare qualche esempio?); in secondo luogo, che, però, non sono prodotti né mediati dai dotti dell’Accademia, dai filosofi e dagli scienziati, dagli storici o dai letterati, ma circolano e prosperano grazie a figure diverse e soprattutto in luoghi diversi da quelli presidiati dalle istituzioni pubbliche; in terzo luogo, che l’Università non riesce a far di meglio che imitare, inseguire, recepire quel che succede fuori.

Anziché portare fuori il sapere, la terza missione consiste sempre di più nel portare dentro quel che si dice fuori. E, spesso, anche, negli stessi termini in cui lo si dice, senza alcuna ulteriore forma di elaborazione, o di riflessione. È come se una nuova spaccatura si fosse prodotta: non più fra due culture – quella scientifica e quella umanistica – ma fra due linguaggi: quello specialistico parlato dai saperi, sia scientifici che umanistici, e quello parlato invece dai media, capace di formare l’opinione pubblica senza alcun bisogno del gravame di una più complessa mediazione culturale. Così che quando l’Università è chiamata a impegnarsi in ciò che la terza missione chiama il «public engagement» non ricorre più al dotto, allo studioso, allo scienziato o al filosofo, ma all’influencer, allo sportivo o al cantante. Una resa unilaterale a ciò che «si dice», la mesta presa d’atto della sua pura forza performativa.

Se questo è lo stato del sapere – almeno: nella faccia che rivolge al pubblico, al mondo di fuori – non meraviglia che l’università si trovi largamente impreparata quando il dibattito pubblico si incattivisce o si esaspera, e che per esempio appaia confusa e balbettante quando dovrebbe difendere con chiarezza di principi i propri spazi, la propria libertà e il senso stesso del proprio lavoro (ogni riferimento ai fatti di Pisa e al professore messo malamente a tacere dagli studenti è perfettamente voluto).

Qual è, dunque, la missione del dotto? Ce n’è ancora una, anche se secondo il Ministero ce ne sono ben tre? Ci sono ancora uomini dotti e ha qualche significato, per la società in genere, la dottrina dell’uomo dotto? E poiché, si diceva, non c’è missione intellettuale che non sia riferita all’oggi, non è l’oggi segnato anzitutto dall’incapacità cronica di portare queste domande all’attenzione del mondo politico e del mondo della cultura?

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