«Le informazioni molto affidabili che provengono dall’ISW, l’Institute for the study of war, ci confermano il predominio sul terreno dell’iniziativa russa, ma senza successi travolgenti: un chilometro in più non cambia la situazione. Gli ucraini continuano a resistere grazie ai rifornimenti che arrivano dall’occidente». Il generale Vincenzo Camporini, consigliere scientifico dell’Istituto affari internazionali ed ex capo di stato maggiore dell’aeronautica militare e della difesa, fa il punto sulla situazione in Ucraina e chiarisce: «L’industria bellica ucraina è diventata molto efficiente: ha sviluppato sistemi innovativi e messo in opera una capacità quantitativa significativa nel campo dei droni ottenendo buoni risultati nella campagna contro il settore energetico russo».
A proposito di droni: la reazione dell’Europa è stata all’altezza della provocazione russa?
«Dobbiamo imparare molto dall’esercito ucraino. Noi abbiamo un ottimo sistema di difesa aerea ma pensato per una minaccia convenzionale: velivoli incursori identificati e colpiti con missili a lunga e a corta gittata. Sono strumenti sofisticati ma costosi. Però chi paragona il costo di un drone con quello di un missile fa un confronto sbagliato. Il calcolo va fatto sul danno provocato da un drone: se il danno è enorme, il costo degli strumenti di reazione si giustifica».
Bisogna comunque cercare sistemi più efficienti…
«Se ne parla da un po’. In occasione dell’insediamento di papa Francesco creammo una bolla intorno al Vaticano con adeguata difesa aerea: adattammo velivoli di addestramento per intercettare la minaccia di velivoli ultraleggeri. Nell’immediato si potrebbero adattare elicotteri da combattimento che, con una raffica di mitragliera, possono tranquillamente abbattere il drone. La difesa aerea resta un sistema complesso: ha bisogno pure di strumenti che servono per avvistare i droni come il Caew usato in Polonia contro i droni russi».
La no-fly zone è sempre stata esclusa. È arrivato il momento di attivarla?
«No-fly zone significa contrastare qualsiasi movimento sgradito e, alla fine, combattere contro i russi. Per ora è sconsigliato».
Quindi non resta che rafforzare sempre di più l’esercito ucraino affinché sia capace di difendersi da solo?
«Esatto, è l’iron porcupine, il porcospino di acciaio di cui ha parlato anche la Commissione europea».
L’invasione russa dell’Ucraina ha innescato un’evoluzione tecnologica nella guerra. Perfino gli Usa hanno capito che devono aggiornarsi.
«Quando parliamo di intelligenza artificiale parliamo di scienza ai suoi primordi, un campo nel quale abbiamo avanzamenti e stravolgenti dall’oggi al domani. La cyberwar ha un ciclo di progettazione che si misura non in anni o mesi, ma in qualche giorno. C’è un avanzamento tumultuoso che può dare vantaggi ma può essere presto superato. Per ora vedo molto disordine».
Abbiamo due certezze: che Putin non si fermerà e che Trump non fornirà aiuti.
«E chi l’ha detto che Trump non aiuterà la Russia? L’ultima richiesta di mettere i dazi al 100% alla Cina sembra la ricerca di una scusa per non fare nulla. Posizione estremamente pericolosa. Putin aveva degli obiettivi: “bielorussizzare” e disarmare l’Ucraina, annettersi i territori che ritiene già parte della Russia. Puoi costringere Putin a sedersi a un tavolo solo se ha la piena evidenza che non raggiungerà l’obiettivo con le armi».
Garanzie di sicurezza dopo la pace. Ma se la pace non c’è che si fa?
«Sul piano politico non c’è nessuna possibilità di un intervento diretto con le truppe sul campo. Per ora, le garanzie di sicurezza sono un concetto vuoto».
Israele continua l’attacco a Gaza City. Quali possibilità di successo?
«L’Idf ha ricevuto un compito che non è in grado di conseguire. il controllo del territorio con i boots on the ground funziona così: bonifico un territorio urbano, lo presidio e passo all’isolato successivo. Ma le forze israeliane hanno numeri limitati, anche se richiami i riservisti. Per andare avanti devi svuotare il blocco appena conquistato che sarà subito riempito dalle milizie di Hamas. I capi militari ne sono consapevoli e hanno cercato di farlo capire a Netanyahu. Ciò dimostra che viene richiesta una missione politica, non un obiettivo militare. Non si parla più di Cisgiordania, ma di Giudea e Samaria: sono le pulsioni della destra ultraortodossa. Ma così è una guerra infinita».
“Due popoli due stati”: è ancora possibile?
«Oggi è un’idea accademica, ma se si vuole arrivare a una convivenza decorosa resta l’obiettivo da perseguire. Ma serve un ruolo molto più determinato dai paesi arabi vicini, che finora non c’è mai stato. Ai sauditi e agli emiratini non importa nulla dei palestinesi».
Ma per governare la Striscia qualcuno dovrà prendersi l’incarico di disporre delle truppe…
«L’ideale sarebbe una governance di Gaza e Cisgiordania affidata a un insieme di paesi arabi per evitare sospetti di manipolazione. Ma finora hanno fatto finta di non esserci. Non vedo volontà da parte dell’Europa: anche l’idea di chiudere Unifil va in questa direzione».
L’attacco israeliano a Doha ha rovinato definitivamente i rapporti con i paesi arabi amici?
«L’operazione ha sconvolto gli equilibri anche in Israele, creando un conflitto tra Shin Bet e Mossad. E non aiuta il dialogo con gli arabi».