Sono accadute molte cose in questa “estate geopolitica”, tutte riconducibili ad un preciso copione di cui ho cercato di dare conto nei mesi scorsi su questo giornale: il ritorno di Trump alla Casa Bianca ha rotto irrimediabilmente (almeno finché sarà lui il presidente degli Stati Uniti) l’Alleanza Atlantica e con essa l’architrave su cui è stato costruito e per ottant’anni ha poggiato l’Occidente democratico, e negare questo assunto, attaccandosi al simulacro di una solidarietà transatlantica che non c’è più, è un errore capitale che ha favorito e favorirà molti di quegli accadimenti gravi intorno ai quali si levano i giusti moniti di chi la storia l’ha studiata e ne ha fatto tesoro; questa rottura spinge la Russia di Putin a insistere nel perseguire il suo disegno di voler riedificare i confini dell’antico impero zarista e rinverdire la potenza strategico-militare della vecchia Unione Sovietica attraverso la destabilizzazione dell’Europa, di cui la guerra all’Ucraina è solo il primo tassello, mentre il mondo “terzo”, quello che negli ultimi decenni ha prodotto un boom economico e demografico senza precedenti, sotto la guida della Cina cerca di imporre nuovi equilibri planetari.
Il tutto condito da un patto occulto e scellerato tra Putin e Trump, sancito sul terreno degli interessi privati di entrambi. A ben vedere, tutto ciò che è successo questa estate e ancora sta accadendo in queste ore – dal “finto” vertice in Alaska fino ai droni russi lanciati in Polonia e la violazione dello spazio aereo romeno, ma anche la scelta di Israele di “andare fino in fondo” e persino la crisi francese – è riconducibile a questa epocale lacerazione storica che ho sommariamente riassunto. Naturalmente, in queste ore il maggior motivo di apprensione lo ha creato la doppia provocazione di Mosca nei confronti di Polonia e Romania, ed è bene che la Nato abbia subito avviato l’operazione “Eastern sentry”. E l’Italia farebbe bene a sbrigarsi a passare dalla fase della valutazione a quella della piena e formale adesione a “sentinella orientale”.
Ma non è solo il fronte strettamente militare quello che fa pensare, e temere, che il Cremlino stia passando dalla fase “attacco all’Ucraina” a qualcosa di più vasto nel dispiegare la sua strategia di destabilizzazione dell’Europa. Il primo ministro polacco Donald Tusk ha lanciato l’allarme dicendo che il Cremlino alimenta nel suo Paese, sulla base di paure ed emozioni autentiche, un’ondata di sentimenti filo-russi e di ostilità nei confronti dell’Ucraina in guerra. Come? Probabilmente con gli stessi sistemi con cui ha messo lo zampino nella caduta del governo Bayrou e il conseguente tentativo di sbarazzarsi di Macron, infiammando le piazze di Parigi.
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Di fronte alla crisi transalpina, tutti gli analisti si sono buttati su chiavi interpretative interne: la crescita del deficit e del debito che espone l’economia francese a difficoltà simili a quelle italiane del 2011, la caduta di popolarità dell’inquilino dell’Eliseo, la crisi dei partiti tradizionali e nello stesso tempo dell’opzione tecnocratica imposta da Macron, la consunzione del sistema politico-istituzionale transalpino, che induce a pensare che la Quinta Repubblica, ormai prossima ai 70 anni di vita (è dell’ottobre 1958 la settima Costituzione, quella del semipresidenzialismo), sia arrivata al capolinea. Letture legittime, sia chiaro, a cominciare dalla constatazione di come i populismi di destra e gli estremismi di sinistra siano cresciuti anziché diminuire come il disegno macroniano si proponeva di fare. È un dato di fatto. Anche se fatico a considerare solo un banale luogo comune la convinzione, diffusa ovunque tranne che in Francia, che quello sia “un paradiso abitato da gente convinta di trovarsi all’inferno”.
Ma credo sia necessario guardare alla crisi francese almeno anche con occhiali geopolitici. Bastano alcune semplici constatazioni. È vero o non è vero che le due forze che hanno impedito la sopravvivenza del governo Bayrou, la destra lepenista e la sinistra radicale, hanno in comune una linea di politica estera filo-putiniana? Nel caso del Rassemblement National di Le Pen e Bardella c’è addirittura un non smentito legame finanziario con Mosca, mentre la linea anti-riarmo e anti-Ue della sinistra radicale dentro e vicina a France Insoumise guidata da Melenchon fa oggettivamente il gioco di Putin. E come mai proprio ora è stato impedito a François Bayrou di restare a Matignon, nonostante che a dicembre gli sia stato consentito di succedere a Michel Barnier?
Forse perché il vero obiettivo è il Macron che si è messo alla testa dei “volenterosi”, unica alternativa ai “vuoti” creati dalla presidenza americana in sede Nato, e in Europa è il leader più fieramente anti-Putin, il maggior critico di Trump e il più disposto insieme con l’inglese Starmer – cui non a caso stanno creando grattacapi politici interni non da poco – a interventi militari diretti a sostegno di Zelensky? Tutti hanno sottolineato che il nuovo primo ministro designato da Macron, Sébastien Lecornu, sia un fraterno amico del presidente, e i più stupidi (non pochi, purtroppo) hanno fatto facili battute sul suo cognome, ma nessuno ha notato come nel gabinetto Bayrou fosse ministro della Difesa e che sceglierlo assume un preciso significato circa le priorità che la Francia si deve dare in questo drammatico momento. C’è da giurarci che a Mosca ne abbiano preso nota.
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Insomma, la destabilizzazione della Francia è un obiettivo primario della politica anti-europea di Putin, non fosse altro perché vuol dire mettere in crisi il solo paese dell’Unione Europea dotato di deterrenza atomica, l’unica forza militare in grado di mettere in soggezione il Cremlino. Sappiamo che Mosca investe ingenti risorse – denaro, intelligence, attività cyber, infiltrazioni, interferenze elettorali – per minare dall’interno i sistemi politici dei paesi continentali, sfruttando le loro debolezze, e per creare nelle opinioni pubbliche europee, soprattutto attraverso campagne e diffusione di fake news sui social media, correnti di pensiero funzionali sia alla messa in crisi di governi, partiti ed equilibri politici considerati nemici, sia ad alimentare la protesta sociale.
Prendiamo la rivolta che si è generata qualche giorno fa a Parigi, quella denominata “Bloquons tout”, lanciata anonimamente su Tik-Tok e X da oscuri nostalgici della stagione dei Gilet Gialli (quella di cui si erano innamorati i 5stelle nostrani) con l’intendimento (per fortuna irrealizzato) di bloccare l’intero paese facendo leva sulla protesta sindacale e sulla copertura della sinistra di Melenchon. Pensate che un simile movimento dal basso, come si usa dire, senza bandiere né leader, che la stampa francese ha indagato senza venirne a capo, sia potuto nascere e organizzarsi spontaneamente? O piuttosto che ci sia una regia occulta? Io propendo per questo seconda spiegazione, e aggiungo: chi se non la Russia può avere avuto l’interesse a promuoverlo e finanziarlo?
Non si tratta di una mia inclinazione alla dietrologia, ma di repulsione per l’ingenuità e le sue nefaste conseguenze. Lo stesso sentimento che porta a considerare fasulle le smentite che fosse di marca russa l’attacco cibernetico ai sistemi di navigazione dell’aereo di Ursula von der Leyen. E che porta ad escludere l’errore involontario tra le possibili cause della pioggia di droni russi sul territorio polacco, e poi in quello rumeno – anche perché, nel caso, la reazione del Cremlino sarebbe stata diversa – e a considerare quelle incursioni una deliberata provocazione nei confronti non soltanto di Varsavia e Bucarest, ma anche e soprattutto dell’Europa e della Nato. Con l’intento di saggiarne le reazioni, sapendo di poter contare sulla sostanziale indifferenza americana, seppure mascherata da una finta (ma neanche tanto) indignazione verbale.
Anzi, mi spingo oltre, e noto che la gravissima provocazione russa sia stata messa in atto in corrispondenza con la crisi politica francese – non a caso chiusa in poche ore da Macron, anche a costo di una evidente precarietà – e l’esplosione della piazza. Non è una coincidenza, ma una precisa strategia partorita a seguito, e in conseguenza, del vertice russo-americano di Ferragosto in Alaska. Il quale non ha mai avuto, da entrambe le parti, l’obiettivo della pace in Ucraina – e neppure di succedanei come la tregua o anche solo un momentaneo cessate il fuoco – ma la celebrazione del ritorno sulla scena internazionale del “ricercato” Putin, anche a costo di una figura meschina da parte di Trump.
Ho già scritto ripetutamente, nei mesi scorsi, del patto occulto, ma facilmente intellegibile, tra lo zar di Mosca e l’aspirante autocrate di Washington, sancito sul terreno degli interessi privati di Trump e per questo ancor più forte e vincolante di una sua versione politico-strategica (dimensione che interessa solo a Putin). Quell’incontro in Alaska, per le dinamiche del suo svolgimento a fronte di un totale vuoto di contenuti, ha clamorosamente confermato l’esistenza di questo patto scellerato, così come lo confermano i penosi balbettii di The Donald di fronte al ripetersi, anzi al crescere, delle aggressioni militari russe, fino, da ultimo, all’incommentabile alibi concesso a Putin, e cioè che decine di suoi droni sarebbero finiti “per errore” a oltre 300 km al di là dei confini della Polonia.
Insomma, la guerra russa non inizia e non finisce a Kiev, ma si estende con strumenti ibridi – che costano molto meno e sono altrettanto efficaci di quelli militari – agli Stati e alle istituzioni che si oppongono al disegno imperialista russo. Esserne consapevoli è il primo dei requisiti necessari per potervi far fronte.